Roma, la storia, l’arte, i monumenti, le chiese e… i ristoranti. Già, i templi sacri della cucina dedicati al buon gusto che, con la loro tradizione secolare, sono diventati parte integrante del patrimonio culturale della città. L’osteria (intesa nel senso più ampio del termine, dalla trattoria al ristorante di lusso) infatti, oltre a fotografare, come in un vecchio dagherrotipo, il rito conviviale nel suo aspetto fortemente caratterizzato (la ormai proverbiale filosofia romana della tavola, improntata alla socialità e al buon umore) ha consentito di preservare alcuni edifici altrimenti destinati a scomparire.
Alla stregua di veri e propri musei, “conservano e tramandano ricordi, cimeli e arredi d’inestimabile valore per la storia nazionale”. Ed ecco perché lo stato, in alcuni casi, si è sentito in dovere di intervenire per tutelare quegli esercizi a cui è stato riconosciuto giuridicamente il titolo di “locali storici”, non già un semplice attestato di onorificenza, ma un esplicito atto d’impegno rivolto alla loro conservazione. Passiamo in rassegna alcuni di questi “monumenti” da vincolare, la cui storia può essere ripercorsa attraverso un suggestivo itinerario della memoria segnato dal nome di ospiti illustri quali artisti, scrittori, sovrani, capi di stato che hanno lasciato la diretta testimonianza del loro passaggio.
Per ciò che concerne la cucina, invece, lo stretto legame col passato viene ribadito da uno spiccato senso della tradizione che sopravvive negli anni quasi immobile (a parte gli opportuni aggiornamenti ad un gusto più moderno) rimanendo tenacemente fedele a se stessa e ai robusti sapori di una volta.
Il più antico ristorante di Roma, secondo una indagine accurata che ne ha rintracciato l’origine, risalente al 1528 e forse, addirittura, al 1450 è La Campana, tra via della Scrofa e piazza Nicosia. Antica stazione di posta (una sala, come dimostra un documento del 1854 affisso alla parete, era adibita a rimessa delle vettura dei cavalli) è ricordata da Goethe nelle sue Elegie Romane, in cui si cita anche una certa cameriera a cui il grande scrittore tedesco avrebbe rivolto le proprie attenzioni. Altri personaggi, più vicino a noi, si sono seduti ai tavoli della Campana: il Duca d’Aosta, Picasso, Guttuso, Pasolini, Soraya e molte altre celebrità che del ristorante, oggi come ieri, apprezzano l’aria simpaticamente familiare, il servizio cordiale – sia l’ospite un VIP o un cliente anonimo – ed il fascino senza tempo suggerito dagli arredi e dal menù tradizionale, arricchito da piatti a base di pesce: bucatini all’amatriciana, spaghetti al tonno, coda alla vaccinara, vignarola (misto di ortaggi in un soffritto di olio, cipolla e guanciale), baccalà in umido e tutte le variazioni canoniche sul tema ittico (al sale, ai ferri ecc.).
A Testaccio, cuore popolare di Roma, c’è il ristorante Checchino dal 1887 a tenere alto il nome della cucina locale basata da oltre un secolo sull’elaborazione delle carni di scarto del vicino mattatoio (oggi monumento nazionale). E cioè cuore, fegato, pagliata (intestino di vitellino da latte), coda, polmone, e tutte le frattaglie, opportunamente sgrassate in modo da risultare gradevoli anche ai palati più delicati. Una cucina umile, plebea, e giustamente considerata geniale proprio per la sua straordinaria capacità di nobilitare la povera materia prima, trasformandola – in virtù di una raffinata sensibilità – in autentici piatti-capolavoro. Un esempio? L’incredibile padellotto alla macellara (con tutte le frattaglie, cucinate ognuna secondo il diverso grado di cottura) accompagnato dai grandi vini della fortissima cantina, ricavata nel fianco del Monte Testaccio, eccezionale esempio di monte artificiale, formatosi sull’accumulo di anfore romane infrante.
Una targa datata 19.6.1980 dichiara che Cesaretto è, su decreto del Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, di valore rilevante ai sensi della legge sulla tutela delle risorse di interesse artistico e storico. La fiaschetteria Beltramme di via della Croce, ribattezzata con il nome di Cesaretto, successore del fondatore, arrivato a Roma alla fine del secolo scorso, è infatti, come recita solennemente l’iscrizione all’interno del locale, il simbolo stesso della tipica osteria romana, arrivata fino a noi praticamente intatta nel suo fermo e quasi commuovente rifiuto della modernità: ancora oggi manca il telefono, le carte di credito non si sa cosa siano, spesso si condivide il tavolo con gli estranei, in un’atmosfera gioviale e godereccia, scandita da lunghe attese fra una portata e l’altra, perché mangiare significa anche rilassarsi e scordare gli affanni quotidiani. Così, non senza un pizzico di snobistico distacco, sono sempre stati numerosi gli intellettuali di casa da Cesaretto (come l’indimenticabile Flaiano) ed oggi anche le top model dimenticano volentieri la dieta per un piatto di timballo di fettuccine, polpette in umido e dolci della casa, “benedetti” dal vino sfuso del Castelli Romani. Una curiosità: fu l’opinione pubblica a salvare, nel 1980, il ristorante dallo sfratto e a fargli ottenere il decreto a salvaguardia della sua centenaria tradizione.
Nel ghetto ebraico, altro quartiere famoso per le sue attrattive gastronomiche, troviamo il ristorante da Giggetto, quasi attaccato alle vetuste colonne del Portico d’Ottavia, il monumento fatto costruire dall’imperatore Augusto in onore della sorella. Giggetto è sinonimo, fin dagli anni del primo dopoguerra, quando venne rilevato dal capostipite della famiglia Ceccarelli, Luigi, di cucina ebraico-romana e di carciofi alla giudia, aperti come fiori dai petali dorati e croccanti: il piatto forse più rappresentativo, ma anche le altre specialità parlano il linguaggio schietto della tradizione, vedi i filetti di baccalà, pagliata, trippa, seppioline con piselli, coda alla vaccinara. Assai caratteristico l’ambiente, che richiama le atmosfere popolari dei tempi andati, quando i “fagottari” venivano all’osteria con i cibi propri e si limitavano a bere vino e giocare a carte. Tutto (o quasi) come allora, a parte ovviamente una clientela alla moda di buongustai, che si ritrova come in famiglia, trattata con affabilità ed ogni riguardo.
Dalle parti di Trastevere un’altra trattoria dal glorioso passato: Checco er Carettiere, aperta nella seconda metà dell’‘800 e, dopo alterne vicissitudini, presa in gestione da un carrettiere a vino sceso in città a portare il biondo nettare dei Castelli. Il “boom” dei locali tipici, scoppiato sul finire degli anni ’40 propiziò il successo delle osterie di Trastevere, quartiere intensamente popolare, presso un pubblico d’elite: Sofia Loren, Silvana Mangano, Henry Fonda, Robert Mitchum, Sergio Leone e tantissimi altri fecero la loro apparizione da Checco, forchetta e coltello in mano per assaggiare i piatti forti della casa, di stretta osservanza romanesca, oggi con parecchie proposte di pesce: spaghetti alla carettiera, bombolotti all’amatriciana, coda, trippa, crostata di visciole. Il locale, col passare degli anni, non ha perduto il suo carattere da vera osteria romana, tra trecce di aglio pendenti, foto sbiadite e attestati di benemerenza. Una clientela di tono casual-chic ama curiosare tra le ricette del passato, regalandosi bocconi di felicità.
Sempre a Trastevere, altri due ristoranti che hanno fatto la storia del quartiere e della città. Il primo, conosciuto un tempo come Corsetti (oggi risistemato come una antica nave di pirati, di qui la nuova insegna con l’aggiunta di “Galeone”) vanta una lunga esperienza, fin dal 1922, anno in cui il patriarca dell’attuale generazione di ristoratori, Filippo Corsetti, anch’egli carrettiere a vino, rilevò una vecchia osteria, frequentata soprattutto dagli avventori del vicino mercato di S. Cosimato. Allora nelle trattorie della zona non si mangiavano che piatti romani, abbacchio, pollo con i peperoni, frattaglie, senza nessuna concessione alle ricette di mare. Con la sua zuppa di pesce imparata da un pescatore Elena Iolanda, moglie di Filippo, riuscì a smuovere le pigre abitudini alimentari degli abitanti, tanto che ancora oggi il Galeone, senza dimenticare la sua primitiva vocazione romanesca, fa scuola nella capitale con la sua cucina marinara sostenuta da un prodotto ittico freschissimo: le ormai mitiche linguine del Capitano, crostacei, molluschi e frutti di mare, molto apprezzati anche da ospiti di rango, quali politici, uomini d’affari, personaggi del mondo dell’arte e della cultura.
Ad un teatro, quello dell’opera, è legata la storia del ristorante Del Giglio (dal 1903), un classico nel tempo proprio come la musica lirica ed i suoi interpreti che ne hanno decretato il meritato successo. La cucina romana d’ordinanza, da sempre punto di forza del locale, si è nel frattempo lasciata sedurre da gusti più innovativi, spiccando talora qualche volo di fantasia verso originali preparazioni (specie per i primi piatti) che possono deviare dal tema principale: saltimbocca di pollo con i peperoni, gnocchi di semolino alla romana, ma anche pescatrice al basilico, calamari all’aceto balsamico, rosette di vitello con spinaci e gorgonzola per rendere più completa la scelta. Sullo sfondo eleganti sale arredate con stile sobrio e pulito, tra lambris in legno, drappi ed ariose arcate.
Sono ancora molti i ristoranti che possono reclamare legittimamente il contrassegno di riconoscimento storico, e per alcuni di essi è d’obbligo almeno una breve citazione: la Sora Lella all’Isola Tiberina, con la sua deliziosa “finestrella sul Tevere”, che incornicia uno dei panorami più magici dell’intera città, rappresenta forse l’ultimo baluardo, anche in senso culinario, della romanità pura. La Gensola, immortalata dal pittore Blunck della scuola danese di Thorvaldsen, è oggi uno dei ristoranti più quotati di Trastevere, grazie alla raffinata cucina di mare e alla piacevolezza dell’ambiente, che ricrea il calore e l’informalità delle mura di casa. Alfredo alla Scrofa le cui fettuccine al triplo burro, celebrate dai divi di Hollywood del cinema muto Douglas Fairbanks e Mary Pickford, sono ormai entrate a far parte, a pieno diritto, del vocabolario gastronomico internazionale.
Da Pancrazio, scavato nelle rovine di quello che fu il Teatro di Pompeo, il luogo dell’uccisione di Cesare, è un incredibile complesso archeologico che, al di là dei pregi della cucina legata anch’essa al filone romanesco, vale da solo una visita per così dire “turistica”. Romolo, a Trastevere, abbracciato dalle mura della casa un tempo abitata dalla Fornarina, la modella prediletta da Raffaello, richiama fantasticamente le suggestioni “rosa” di un amore d’altri tempi, con corollario di peccati di gola, all’insegna dei sapori squisitamente romani, consumati all’ombra di un fresco giardino segreto. E ancora: Toto, in via delle Carrozze, che dal 1922 rappresenta la tavola romana, oggi accostata alle ricette di limpida estrazione mediterranea, spesso fantasiose, dove il sapore del mare si esalta nella freschezza del prodotti dell’orto, raccolti secondo il criterio della stagionalità. Il Passetto, nato nel 1855, che ha visto passare, grazie anche alla sua invidiabile posizione alle spalle di Piazza Navona, personaggi davvero straordinari come Charlie Chaplin, Ava Gardner, Gary Cooper, Richard Burton e Salvador Dalì, innamorati di Roma e della sua cucina sensuale, più tardi, e siamo già ai nostri giorni, completata da spunti internazionali, non senza le immancabili pietanze di pesce. E poi ancora tanti altri (comprenderli tutti richiederebbe un trattato a parte) che occupano le pagine di storia della città, nel segno di un affascinante confronto dialettico fra cucina e cultura.
(pubblicato su Aroma di novembre/dicembre 2008)