Intervista esclusiva al vulcanico chef del Reale di Rivisondoli (AQ) premiato nel 2009 con la seconda stella Michelin
Lei è un autodidatta, ha viaggiato, osservato, sperimentato: oggi, ai vertici della ristorazione, ritiene che questo percorso sia stato più faticoso rispetto a chi frequenta una scuola alberghiera?
In parte sì, per altri versi invece no. Sicuramente, essendo stato autodidatta, mi è mancata inizialmente la manualità o una grande scuola che mi desse l’imprinting. E quindi ho affrontato molte più difficoltà, anche nel fare delle ricette di base, nel capire delle salse di base ad esempio, un fondo o una vellutata, una besciamella, mi sono dovuto mettere lì, a provare e riprovare. Non avendo avuto un maestro sono stato così costretto a farmi tutto da solo. Dall’altro punto di vista, proprio per il fatto di non aver frequentato nessuna scuola, ho potuto esprimermi in maniera “libera”, senza pregiudizi e senza quei dogmi che da quando sei piccolo cercano di inculcarti, potendo dunque assecondare la mia idea di fare gola, il mio personale gusto e vocazione.
Come è nata la scintilla della passione di Niko Romito per la cucina?
E’ nata quasi casualmente, perché papà aveva aperto un ristorante undici anni prima ed io, vivendo a Roma, salivo quasi ogni fine settimana a Rivisondoli e davo una mano a lui e mia mamma in sala… Prestando servizio ai tavoli, entravo ed uscivo dalla cucina e, stando lì durante le preparazioni, piano piano mi sono reso conto che era veramente un mondo affascinante. Così, quasi per gioco, frequentando nel frattempo dei corsi amatoriali, ho iniziato a dare una mano direttamente ai fuochi, e dopo un anno, ho lasciato Roma, ho lasciato tutto, e mi sono dedicato completamente al ristorante.
Dopo la sua esperienza dai fratelli Roca a Girona, che differenza ha notato tra Spagna e Italia nel mondo dell’alta ristorazione?
Ho riscontrato innanzitutto il fatto che gli spagnoli possiedono una cucina molto tecnica, ed è maggiormente protagonista sulle loro tavole, almeno dall’esperienza che ho fatto io, l’esecuzione rispetto alla materia prima. In Italia, e dico per fortuna, la nuova ristorazione, ma non solo, utilizza le tecniche come strumento per esaltare i gusti e i sapori degli ingredienti. E mi rendo conto, girando sempre di più, che solo noi possiamo vantare una cucina così variegata e composita, da regione a regione, da comune a comune. Abbiamo pertanto l’obbligo imperativo di mantenere quel patrimonio identitario salvaguardando i nostri prodotti.
Innovazione o tradizione. In cosa si identifica la sua cucina?
Sia nell’innovazione che nella tradizione, perché l’innovazione consiste nel fare una cucina molto più leggera, fondata su grandi materie prime, che evidenzi il prodotto o l’elemento che voglio far percepire di più in bocca al cliente. La tradizione c’è nella mia cucina, sia nella scelta dei prodotti che nella rilettura e rivisitazione in chiave innovativa e moderna delle ricette del passato.
Come avviene la selezione delle materie prime? Le sceglie personalmente e si rivolge anche ai produttori locali?
Dopo tutti questi anni abbiamo fatto una selezione di produttori locali più che altro della provincia de L’Aquila, produttori ad esempio di zafferano, di legumi, di formaggi, di carni soprattutto ovine. Conoscendoci meglio, sempre di più nel corso del tempo loro hanno capito come sono abituato a lavorare, tanto che adesso automaticamente, quando io chiedo un agnello o un pecorino, cercano sempre di mandarmi il meglio del meglio delle loro produzioni.
Sappiamo che al perfezionamento di una ricetta lavora anche mesi, ma come crea un nuovo piatto? Dove trae ispirazione?
L’ispirazione per una nuova ricetta a volte viene leggendo qualcosa, assaggiando un piatto in un ristorante, a volte addirittura i più grandi piatti sono nati mangiando un cibo di strada, o dopo un invito a casa di qualche amico la cui madre magari è rinomata per preparare un piatto tradizionale e si prende così spunto da quei sapori, da quegli elementi particolari. L’idea di un piatto scaturisce anche da mesi e mesi di riflessioni, come il dolce che in questo momento è in carta, “Essenza”, che è nato provando ogni giorno degli accostamenti innovativi, diversi, per poi arrivare ad un compiuto equilibrio finale. Ma abbiamo impiegato veramente parecchi mesi per raggiungerlo.
C’è un piatto che la rappresenta in modo particolare? E perché?
In questo momento credo che il piatto che rappresenta maggiormente la filosofia della cucina del Reale è l’”Assoluto di cipolla” con parmigiano e zafferano tostato. Perché mi rappresenta? Perché comunque ci sono tre elementi nel piatto, ben netti e distinti, che tra loro si legano in piena armonia. Perché tutti e tre gli ingredienti sono lavorati in maniera assoluta, con tecniche e spirito di innovazione, per estrarre al massimo il loro sapore quintessenziale.
Consigli a chi inizia questa professione. Quali sono gli sbagli da evitare?
Un errore è sicuramente smettere di frequentare le ristorazioni classiche, le vere trattorie, le osterie autentiche, e le cucine “facili”, perché secondo me tutto parte da lì, e andare subito a fare gli stage nei “ristorantoni” perché chi fa alta cucina oggi è sempre in grado anche di fare un perfetto cacio e pepe, o un piatto di spaghetti aglio e olio. Purtroppo io vedo al contrario nel mio ristorante ragazzi che magari sono degli assi delle sferificazioni oppure dei gelati particolari, però poi quando dico loro: “Fatemi un piatto di pasta e fagioli” non sono all’altezza. Purtroppo si tratta di un grosso limite, perché se non conosci le basi, poi non ottieni altro che una fotocopia di piatti imparati nei ristoranti dove hai fatto pratica, e non esce nulla di veramente tuo, che ti caratterizzi a tutto tondo.
Esce mai in sala per conoscere i suoi clienti? Se sì, perché crede che sia importante?
In sala esco spessissimo, perché stando a Rivisondoli noto che i clienti che vengono al Reale percorrono quasi tutti più di cento chilometri in macchina con il desiderio – sia mentre stanno degustando che alla fine della cena – di confrontarsi e dialogare con me, capire come e perché è nato quel piatto, vogliono spiegazioni sugli ingredienti ed essere anche “coccolati” e penso che sia bello e giusto, nei riguardi di chi ha investito una giornata intera per una visita al tuo ristorante, riservare il massimo delle attenzioni.
Qual è stata la sua più grande soddisfazione in questo lavoro?
Una delle mie più grandi soddisfazioni sicuramente è stata l’anno scorso quando, inaspettatamente dopo appena un anno di prima stella Michelin, abbiamo raggiunto la seconda stella, un traguardo storico per l’Abruzzo: infatti non si è mai verificato che un ristorante della regione facesse ambo. E storico anche per noi, perché c’è stato un lasso di tempo assai breve tra la prima e la seconda stella, e se solo penso a nove anni fa, quando eravamo proprio agli esordi… mentre adesso ci troviamo catapultati in una dimensione straordinariamente più grande rispetto a quella che avevamo prospettato all’inizio della nostra avventura.
Un progetto che si appresta a realizzare.
Si chiama “Casa Donna” ed è il mio progetto di vita. Io e mia sorella Cristiana stiamo finendo di restaurare un ex monastero, dove andremo a creare delle camere importanti per accogliere i clienti che vengono a cena al Reale, quindi anche il ristorante nel giro di due anni si trasferirà. E poi un centro di formazione regionale, per cui l’idea è quella di fare dei master di specializzazione per ragazzi che già hanno avuto esperienze e soprattutto instaurare dei dialoghi forti con le produzioni locali, in modo da offrire loro la possibilità di avere una scuola, uno showroom, a disposizione come vetrina per le varie eccellenze gastronomiche.
E’ legittimo collocarla tra i principali artefici di una nuova identità della cucina italiana, ma per arrivare a questi livelli quanto è stata ed è importante la figura di sua sorella Cristiana in sala e perché?
La presenza di Cristiana in sala è stata ed è fondamentale, perché è lei l’insostituibile trait d’union con la cucina, è lei che accoglie il cliente, che cerca di comprenderne i gusti e consigliare determinati piatti, ed è inoltre l’elegante figura di sintesi dell’ospitalità del ristorante. Perché oggi come oggi per fare alta ristorazione non bisogna solo saper confezionare un buon e bel piatto, l’aspetto che manca sempre di più è proprio la filosofia dell’accoglienza, l’arte del ricevere, far sentire il cliente a completo agio, a casa propria, e non distante dalla proprietà: senza dimenticare che chi viene in un ristorante investe due ore del proprio tempo per vivere un’esperienza che non deve essere solo gastronomica ma anche di civiltà, nel senso più ampio e profondo del termine.
www.ristorantereale.it
(pubblicato su Aroma di marzo/aprile 2010)