Aroma ha il piacere di incontrare Michele Tabozzi, maestro della food photography e da sempre appassionato di cucina: 46 anni, milanese, ha collaborato con alcuni dei più grandi chef italiani (Alfonso Iaccarino, Heinz Beck, Massimiliano Alajmo, Moreno Cedroni e altri) per la realizzazione di libri monografici e tematici. Nel corso di tali esperienze sono nate amicizie personali ed il progetto di uno studio con cucina professionale dove gli chef possono esprimere tutta la loro creatività, senza limiti, e condividerla con l’occhio artistico del fotografo.
Gentile Michele, come riesce a trasformare una semplice patata, come nel caso del celebre piatto (ostriche e lenticchie) di Alfonso Iaccarino, in un’opera d’arte? E rendere, per dirla con le sue parole, più che il piatto l’idea, o meglio la visione, del piatto stesso?
Si tratta di adattare la ricetta originale alle esigenze del fotografo cambiando, a volte, la disposizione degli elementi che formano il piatto al fine di renderli più “scultorei” e creare una composizione esteticamente equilibrata. Trattare dunque il cibo come fosse un oggetto cha abbia valenza grafica giocando con forme e colori, in pratica aggiungere gli elementi e costruire la ricetta già “nella macchina” usando l’immaginazione e anche qualche accorgimento come nel caso della patata farcita di ostriche o della parmigiana di melanzane “riscoperta” di Alfonso Iaccarino, che al pari delle altre ricette, non sono state impiattate ma montate su un fondo neutro lavabile per dare la sensazione che fluttuino nel nulla.
Come è approdato alla food photography (tappe fondamentali della sua carriera)?
Ho iniziato nell’84 lavorando come ritrattista per magazine patinati come Class, pur coltivando da sempre la passione per la cucina che in seguito mi ha portato a collaborare con grandi chef come Gualtiero Marchesi, del quale per qualche tempo ho curato una rubrica gastronomica corredata dalle foto dei suoi piatti. Nel frattempo il lavoro si è evoluto nei reportage di viaggi, durante i quali ho avuto sempre più l’occasione di entrare nei ristoranti, ma è con Ernst Knam, rinomato maestro pasticciere di Milano, che si consolida la mia esperienza di food photographer e prende forma la collaborazione con la Bibliotheca Culinaria, con la quale ho pubblicato anche le monografie di Alfonso Iaccarino, Heinz Beck, Moreno Cedroni, e altre case editrici come Cucina&Vini (Moreno Cedroni, Multipli di Venti) e per libri non solo italiani come nel caso della “Mia Cucina Toscana” dedicata allo chef italo-newyorkese Pino Luongo. Attualmente sono impegnato in lavori con Acqua Panna e S. Pellegrino, per cui ho realizzato tre volumi dedicati alle degustazioni/abbinamenti dell’acqua minerale (Water Codex I, II e III), con Nespresso, Onfalos (in collaborazione con lo chef Brendan Becht) nonché numerose pubblicazioni di settore come Cucina Italiana, Sale e Pepe e altre.
Qual è l’attrezzatura di base per la professione?
Un’attrezzatura tutta digitale composta da una reflex, nel mio caso una Canon EOS1 DS Mark III con obiettivo 90 mm Tilt & Shift dotato di una speciale lente mobile che, permettendo di sfocare o mettere a fuoco, in qualche modo sostituisce le funzioni del vecchio banco ottico. Fondamentali le luci (flash Elinchrom) e supporti che cambiano a seconda delle esigenze e degli schemi di illuminazione, come ad esempio (consigliati soprattutto a chi è agli inizi) i banks, scatoloni neri schermati assai utili per ottenere una luce più morbida da usare sui soggetti.
Ed i trucchi del mestiere che è indispensabile conoscere?
I trucchi di scena appartengono di più al food stylist o home economist, una figura molto preziosa per chi scatta perché, essendo un addetto ai lavori (chef o esperto di gastronomia) opera in studio realizzando i piatti con “occhio fotografico”, curando il soggetto da ritrarre in ogni suo dettaglio, mentre il fotografo interviene principalmente sulla luce. Nel passato i cibi, spesso per esigenze pubblicitarie, venivano trattati con additivi o altre sostanze (tipo tacchino laccato con la vernice) e pertanto non erano commestibili, oggi al contrario le vivande vengono “lucidate” con elementi naturali o sono esse stesse il più naturali e fresche possibile, quindi autentiche… E lo scatto è molto rapido. Ma, ripeto, il compito del fotografo resta essenzialmente quello di trovare la giusta prospettiva, oltre ad esaltare la luminosità, le trasparenze o i riflessi del cibo per renderlo più brillante ed attraente.
Quanto ha contribuito l’avvento del digitale nella realizzazione di immagini di qualità? Ed i suoi limiti rispetto alla fotografia del passato?
Devo dire che mi sono convertito quasi subito alla nuove tecnologie, ovvero quando il digitale ha raggiunto livelli di qualità in grado di sostituire degnamente la vecchia pellicola. Come in tutte le cose esistono dei pro e dei contro: da un lato il digitale comporta un aggravio di lavoro per il fotografo, costretto ad intervenire in misura maggiore per cercare di rendere l’immagine meno “piatta” e più tridimensionale possibile, dall’altro sono indubbi i vantaggi offerti da programmi come Photoshop, con cui è possibile correggere i difetti delle immagini, anche se personalmente non ricorro molto ai fotoritocchi o alla lavorazione delle foto al computer.
Quali consigli darebbe al neofita, anche in tema di acquisti (macchina compatta, reflex, obiettivi, banco ottico ecc) esperienze o scuole da frequentare?
Io sono un autodidatta, ma certamente mi sento di dare a chi muove i primi passi un semplice quanto fondamentale suggerimento: come in ogni ambito anche nel food la passione è il fattore determinante per raggiungere risultati di eccellenza. Instaurare un rapporto sentito con le materie prime, avere un ruolo attivo nella costruzione dei piatti, metterci dentro qualcosa di sè, creare un rapporto di fiducia con gli chef, spesso gelosi delle loro creazioni. Consiglio inoltre di sfruttare le straordinarie opportunità offerte dalla Rete, navigare e condividere le esperienze che i blogger e i tanti esperti/appassionati mettono a disposizione online, a beneficio di tutti. In più cominciare a fotografare con luce naturale, daylight, la luce artificiale non è autentica per definizione, e vero è sempre sinonimo di bello…
Una sua opera, tra le tante pubblicate dalla Bibliotheca Culinaria, a suo avviso particolarmente completa.
Sono affezionato alla monografia di Alfonso Iaccarino, forse perché si tratta della mia opera prima, mi sento legato però anche ai lavori fatti con Heinz Beck e Moreno Cedroni, uno chef – ci tengo a dirlo – tra i più fotogenici, sempre contornato da un contesto assolutamente suggestivo, che rende molto nella riproduzione fotografica.
Uno chef di cui apprezza particolarmente il lavoro, e che magari vorrebbe documentare con uno dei suoi straordinari reportage.
Mi interessa molto Massimiliano Alajmo, con il quale ho già avuto il piacere di lavorare nel passato, e naturalmente sarei lieto di collaborare con personalità di spicco come Ferran Adrià o Gennarino Esposito, uno chef che mi ha sinceramente impressionato per la sua straordinaria carica di semplicità, anche nella presentazione dei piatti, fondati molto più sulla sostanza che sull’effetto ottico. Quando quest’ultimo infatti cede alle forzature, il risultato è un piatto “piatto”, troppo costruito e quindi non autentico per cui anche poco invitante come stimolo all’appetito.
Dopo aver fotografato i piatti è usanza anche assaggiarli? E’ vero che spesso per preservarne o esaltarne gli effetti cromatici i piatti vengono fotografati al naturale, cioè non cotti?
Sì, ho sempre “approfittato” dei servizi fotografici realizzati, golosamente, assaggiando di volta in volta i soggetti da ritrarre. Per quanto riguarda il grado di cottura è preferibile una via di mezzo, la pasta ad esempio deve essere molto più al dente rispetto a quella servita a tavola, ma in generale risulta ottimale una misura media, salvo esigenze particolari da valutare caso per caso.
Qual è la foto riuscita? E’ sempre il caso di nascondere eventuali imperfezioni o di non ritrarre piatti esteticamente non impeccabili? Devo ammetterlo, le imperfezioni proprio non mi piacciono, se è il caso io le mani nel piatto le metto eccome, altrimenti se non intervenissi, anche solo con un suggerimento, mi sembrerebbe di non rendere un buon servizio. Per rispondere invece alla prima domanda posso dire che la foto riuscita è quella che, a seconda dei casi, risulta appetibile, o ludica, magari grazie ad un gioco che si diverte a proporre proporzioni diverse dal solito, o che prende sempre più valenza plastica, più come un oggetto o una piccola scultura, oppure acquista appeal estetico comunicando un senso di naturalità e freschezza…
Si fotografa con il cuore (ancor prima che con la mente) così come si mangia con gli occhi e soltanto dopo con il palato?
Quando entro al ristorante, confesso, guardo poco con gli occhi ma preferisco piuttosto affidarmi al gusto, a farmi venire voglia di mangiare non è tanto l’aspetto o la forma quanto il sapore dei piatti da assaggiare. E’ una contraddizione solo apparente, in quanto riconducibile alla mia doppia anima di cultore di cucina e di fotografo che mi porta di volta in volta ad assecondare un approccio rispetto all’altro… Pur avendo entrambi in comune la passione profonda per la cucina e tutto ciò che gravita intorno ad essa. Io sono sempre stato attirato dal mondo segreto delle cucine dei ristoranti, ogni volta diverso a seconda dei locali che ho avuto modo di visitare, un mondo ricco di fascino, di cui è bello scoprire l’attività manuale, i ritmi e l’innato dinamismo, in grado di identificare quel senso di movimento e progress continuo che è l’essenza stessa della creazione culinaria.
(pubblicato su Aroma di marzo/aprile 2010)