Nel 1932 i due massimi esponenti del Movimento Futurista Italiano, Filippo Tommaso Marinetti e Fillìa (pseudonimo di Luigi Colombo), mandarono alle stampe della casa editrice Sonzogno di Milano il libretto “La cucina futurista”.
“L’importanza dell’alimentazione sulle capacità creatrici, fecondatrici e aggressive della razza” aveva già da tempo iniziato ad agitare i due artisti, più che mai ansiosi di tornare a stupire il popolo italiano stavolta in un campo del tutto inedito: quello della gastronomia. Tra i loro primi scritti era comparso già nel 1920 il manifesto “Culinaria futurista” che invitava all’uso del colore nelle suppellettili, ma si dovette attendere il novembre 1930 perché il “rinnovamento cucinario” prospettato dai futuristi giungesse ad un punto di svolta.
L’occasione fu il banchetto organizzato presso il ristorante Penna d’oca di Milano, diretto da Mario Tapparelli, in occasione del quale Marinetti annunciò “il prossimo lanciamento della cucina futurista per il rinnovamento totale del sistema alimentare italiano, da rendere al più presto adatto alle necessità dei nuovi sforzi eroici e dinamici imposti dalla razza”.
Un mese dopo, il 28 dicembre 1930, sulle pagine del quotidiano torinese “La Gazzetta del Popolo”, veniva pubblicato il Manifesto della cucina futurista, da subito reso celebre per la proposta di abolizione della pastasciutta, tanto onerosa da produrre quanto faticosa da digerire. Gli spaghetti, infatti, furono accusati dai Futuristi di essere un alimento che non si mastica ma si ingozza, causando quindi, al momento della digestione, un inevitabile senso di fiacchezza, pessimismo, inattività nostalgica e neutralismo, del tutto in contraddizione con l’idea di uomo nuovo dell’epoca.
L’intento del programma futurista in cucina si prospettò, dunque, proprio quello di alleggerire e reinterpretare i tempi e le misure del pasto, per renderlo più conforme ai veloci tempi moderni e liberarlo dal “quotidianismo mediocrista” che ne impediva la piena godibilità. Con la pubblicazione del libro di Marinetti e Fillìa venne definitivamente codificato il regno di una gastronomia che, abbandonati i tempi medio-lunghi di cottura a fuoco lento e tutti i cibi complessi da cucinare, puntava sulla carne poco cotta, sugli accostamenti arditi e sconvolgenti, sul disordine nella presentazione delle portate, su miscugli non conformisti, come il dolce-salato e il cotto-crudo, su bocconi simultanei, in cui si concentravano molteplici sapori da gustare in pochi attimi, sull’invenzione di nuove vivande ispirate all’originalità plastica e coloristica.
L’inedita missione futurista in cucina venne marchiata con bollino italiano, liberando il vocabolario culinario da tutti quei termini francesi e dagli anglicismi che non rendevano certo onore alla tradizione nostrana. Al libro fu quindi accompagnato anche un “Piccolo dizionario della cucina futurista”, redatto con l’ausilio del docente e amico di Marinetti, Alfredo Panzini. Nelle sue intuitive e fulminee traduzioni, Marinetti genera neologismi lasciandosi guidare solo dalla poesia e dall’affinità sensoriale tra odori, consistenze, colori, suoni e profumi di una data vivanda, riponendo un’attenzione viscerale nell’aspetto pittorico e scultoreo delle portate, affinché tutti i commensali abbiano la sensazione di mangiare, oltre che dei buoni cibi, anche delle opere d’arte. Tra le sue curiose traduzioni, i marron glacès diventano le “castagne candite”; il consommé diventa il “consumato”; il cocktail la “polibibita”; il dessert il “peralzarsi”; il picnic il “pranzoalsole”; il menù “la lista”; il bar il “quisibeve”. Anche le oltre 80 ricette futuriste, raccolte nel “Formulario futurista per ristoranti e quisibeve”, assumono una nomenclatura insolita e moderna con il “pollo d’acciaio”, il “golfo di Trieste”, il “carneplastico”, il “porcoeccitato” e “l’antipasto intuitivo”.
Nomi futuristici e dagli echi bellici e patriottici per piatti dagli abbinamenti decisamente originali e azzardati, il cui intento è più spesso l’originalità plastica e coloristica, che non la gradevolezza e l’effettiva commestibilità. Pensiamo alla ricetta del porcoeccitato, che combina una fettina di salame crudo, immerso in una miscela di caffè bollente e acqua di colonia, oppure al golfo di Trieste, un risotto con vongole in salsa d’aglio e cipolle accompagnato da crema alla vaniglia.
Un cucina moderna e innovativa, posta a cavallo tra le spinte tradizionaliste e la ricerca del modernismo, tra l’esaltazione del nazionalismo e della guerra e le innovazioni industriali, ma anche debitrice nei confronti di un passato culinario glorioso che affonda le proprie radici nella Roma Imperiale e nel Rinascimento, in cui si usava preparare piatti da sapori discordanti (attraverso l’uso di petali di rosa, mosto o miele) e stupire i propri commensali con pietanze rare ed esotiche servite in presentazioni elaborate e di forte valenza artistica.
Caratteristica imprescindibile dei banchetti futuristi fu, infatti, l’uso mirato ed evocativo dell’arte in tutte le sue forme, poesia, musica, scultura o pittura, per rendere ogni pranzo un’esperienza sensoriale totale, capace di coinvolgere i cinque sensi. Non erano per questo ammessi a tavola discorsi o incursioni che potessero guastare gli animi e distrarli dal cibo, mentre l’ambiente doveva essere accogliente e stimolante, inebriato da profumi diversi ma non invadenti, la musica innalzarsi come intermezzo a suscitare un fervore emotivo, il contatto tattile con l’alimento non mediato da strumenti e tutti gli oggetti della tavola dovevano essere in sintonia col pasto.
Il ristorante che per primo venne destinato a realizzare questo pranzo perfetto fu la Taverna del Santopalato, a Torino, destinata a diventare la futura culla del risorgimento gastronomico italiano. Nel rispetto dei fondamenti del programma tecnico, il locale non aveva l’aria di un semplice ristorante, ma presentava un ambiente artistico, in cui si tenevano persino concorsi e serate di poesia, pittura e moda futurista. In seguito, divennero famosi anche gli aerobanchetti che i futuristi organizzarono presso il Circolo degli Amici dell’Arte di Novara, l’Esposizione Coloniale di Parigi e la Mostra d’arte a Chiavari.
Un progetto volutamente e marcatamente polemico, quello dei futuristi, troppo moderno e mondano per l’epoca e per questo destinato a risolversi nella fragorosa ilarità generale con cui era stato accolto. Una consapevolezza posseduta da Marinetti e Fillìa, che non temono, tuttavia, di lanciare una sfida al modus cenandi dell’epoca, come espresso nella premessa del loro libro:
“Contrariamente alle critiche lanciate e a quelle prevedibili, la rivoluzione cucinaria futurista si propone lo scopo alto, nobile ed utile a tutti di modificare radicalmente l’alimentazione della nostra razza, fortificandola, dinamizzandola e spiritualizzandola con nuovissime vivande in cui l’esperienza, l’intelligenza e la fantasia sostituiscano economicamente la quantità, la banalità, la ripetizione e il costo. Questa nostra cucina futurista, regolata come il motore di un idrovolante per alte velocità, sembrerà ad alcuni tremebondi passatisti pazzesca e pericolosa: essa invece vuole finalmente creare un’armonia tra il palato degli uomini e la loro vita di oggi e di domani. Salvo le eccezioni decantate e leggendarie, gli uomini si sono nutriti finora come le formiche, i topi, i gatti e i buoi. Nasce con noi futuristi la prima cucina umana, cioè l’arte di alimentarsi. Come tutte le arti essa esclude il plagio ed esige l’originalità creativa.
Non a caso questa opera viene pubblicata nella crisi economica mondiale di cui appare imprecisabile lo sviluppo, ma precisabile il pericoloso panico deprimente. Ad esso noi opponiamo una cucina futurista, cioè: l’ottimismo a tavola.
TORINO 8 MARZO 1931 LA PRIMA GRANDE CENA FUTURISTA DELLA STORIA
un gruppo di aeropittori, aeroscultori e poeti della scuola futurista allestì all’interno di un ristorante (poi battezzato dallo stesso Marinetti “Taverna del Santopalato”) la prima grande cena futurista della storia. Gestita da Angelo Gioachino, la Taverna venne affidata alle cure estetiche dell’architetto Nicolay Diulgheroff e dell’aeropittore Fillìa i quali, parlando della loro creatura, così scrivono: “che voi dovrete immaginare come una grossa scatola cubica innestata per un lato in un altro più piccina: adorna di colonne semincolori interamente luminose e di grossi occhi metallici, pur luminosi, incastrati a metà parete; fasciata, per il resto, di purissimo alluminio, dal soffitto al pavimento”. Anche i menù vennero decorati con illustrazioni di artisti vari, tra i quali Medardo Rosso e lo stesso Fillìa. Ma non solo: i commensali si ritrovarono davanti complicati meccanismi da azionare per coinvolgere in sinestesia i cinque sensi (come l’aerovivanda) o pietanze del tutto simboliche (tipo il pollofiat ripieno di pallini di ferro). In quell’occasione Marinetti fece un famoso proclama: “noi affermiamo questa verità: si pensa si sogna e si agisce secondo quel che si beve e si mangia”, citando inconsciamente Brillat-Savarin ed il suo convenzionalissimo “dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei” . Gli fece eco Fillìa: le persone devono avere “LA SENSAZIONE DI MANGIARE, oltre che dei buoni cibi, ANCHE DELLE OPERE D’ARTE (maiuscoli di suo pugno). Durante il pranzo furono servite in sequenza 14 vivande, tra cui il celebre carneplastico, una vera astruseria culinaria (un cilindro di carne di vitello ripieno di undici qualità di verdura, sostenuto da tre sfere di carne di pollo e da un anello di salsiccia, e coronato da uno strato di miele) che, a detta dell’inventore (il solito Fillìa), doveva essere un'”interpretazione sintetica degli orti, dei giardini e dei pascoli d’Italia”.
Sotto e nell’articolo alcuni piatti del menù di quella memorabile serata
Aroma ringrazia il fotografo Giovanni Camocardi senza il cui eccezionale contributo non sarebbe stato possibile documentare la riedizione di una delle cene più straordinarie della storia.
L’ottimismo a tavola: un intento ambizioso ed ardito che potremmo facilmente assimilare alla moderna cucina di chef nazionali e non che, nonostante l’attuale depressione economica, non temono di portare in tavola creazioni divertenti e geniali a prezzi tutt’altro che da crisi. Pensiamo alla cucina molecolare di Ferran Adrià ad El Bulli di Roses, Wylie Dufresne al WD-50 (NY), Homaro Kantu al “Motu” (Chicago), Thomas Keller al “The French Laundry” in Napa Valley, ma, anche, senza andare tanto lontano, dei nostrani Anthony Genovese al Pagliaccio di Roma, Davide Scabin al CombalZero (Torino), Igles Corelli alla Locanda della Tamerice di Ostellato (PR). Chef post futuristi, per la folle genialità delle loro creazioni, così cariche di contraddizioni e sinestesie, che mantengono viva l’idea di una cucina scevra dalle imposizioni della fame e finalmente libera di poter essere goduta da un punto di vista mai sperimentato prima: il divertimento. Perché il palloncino gonfio d’elio da aspirare alla fine del dolce proposto da Davide Scabin alro non è che una versione più moderna del Caffèmanna futurista, da raffreddare con le freddure più agghiaccianti.
di Flavia Rendina (pubblicato su Aroma di settembre/ottobre 2009)