Roma, 1 maggio e 24 giugno. Due date, due feste, due ricorrenze gastronomiche.
È certamente nota a tutti la tradizione del 1° maggio, festa dei lavoratori, giorno in cui circa 54 milioni di italiani sono soliti recarsi in gita con parenti e amici per passare una giornata di svago all’aria aperta. Ma a Roma questo giorno ha un significato in più. Nel rispetto di un’usanza che risalirebbe addirittura ai tempi degli antichi Romani, questa festa rappresenta infatti un’occasione per celebrare l’arrivo della bella stagione, augurandosi felicità e prosperità con un bel pranzo in compagnia.
E i protagonisti indiscussi ed imprescindibili di questo pranzo sono rimasti, da sempre, le fave e il pecorino. Un abbinamento impeccabile, ma anche un pasto economico, leggero e facile da preparare e conservare: perfetto, insomma, per essere portato con sé in un pic nic nei parchi o in spiaggia, a cui abbinare con successo un buon vino rosso dei Castelli, magari frizzantino, come la Romanella. Una tradizione particolarmente sentita a Nazzano, in provincia di Roma, dove è stata loro dedicata addirittura una grande sagra annuale: per l’occasione viene piantato al centro della piazza un grande albero e sotto le sue fronde ci si riunisce fino a sera a consumare insieme fave, pecorino e prodotti tipici, innaffiati da vino locale.
Ma quali sono le ragioni che avrebbero indotto, in antichità, ad eleggere questi due prodotti a simbolo della festa di primavera? Come testimoniano citazioni bibliche (Bibbia, Ezechiele, 4, 9-13) e testi classici, alla fava (Vicia faba L.), legume presente nelle terre del Mediterraneo già in età Neolitica, sono state da sempre attribuite diverse superstizioni, che solitamente le hanno conferito un significato mistico e spesso negativo. Un mito greco narra come Cerere avesse donato ad una città dell’Arcadia semi di varie leguminose ma non della fava, perché impura; una considerazione che ritorna in un’epigrafe del VI sec. a.C. trovata a Rodi, dove se ne sconsiglia il consumo, ed in Platone, il quale asseriva che le fave provocassero un gonfiore nocivo alla tranquillità spirituale di chi cerca la verità.
Ma fu certamente Pitagora il promotore della credenza più celebre, ovvero quella che associava il legume al mondo dei morti, ritenendo che il baccello rappresentasse la porta dell’Ade e che dentro i semi si celassero le anime dei defunti. L’usanza di consumare questo legume in occasione del lutto si è conservata fino ai nostri giorni ed è per questo che il 2 novembre in molte regioni d’Italia vengono preparati e consumati dolci rituali detti appunto “fave dei morti”.
La simbologia mistica della fava fu giustificata, in epoca romana, da autori celebri come Plinio, chiamando in causa la scarsa digeribilità del legume (che all’epoca veniva consumato con tutto il baccello!), in grado quindi di provocare sonni agitati e conseguenti incubi, presagi e comunicazioni con le divinità. Il loro consumo era, pertanto, interdetto al sacerdote di Giove, che non poteva toccarle, e al Pontefice Massimo, a cui era proibito addirittura nominarle. Ma, nonostante ciò, una nuova simbologia iniziò a farsi strada, stavolta di valore erotico ed afrodisiaco, che vedeva nei baccelli aperti l’immagine dei genitali femminili, mentre nei semi, dei testicoli maschili.
Le fave iniziarono allora ad essere utilizzate secondo un uso più prossimo a quello che ne viene fatto oggi, ovvero per celebrare la dea Flora, protettrice della natura in germoglio e della rinascita, gettando sulla folla baccelli di fave come auspicio di fortuna e prosperità, con l’ulteriore convinzione che fosse segno di fortuna trovare 7 semi nello stesso baccello. Se Platina scrisse delle fave che “gonfiano il ventre e stimolano la lussuria”, Machiavelli invece ne evidenziò le virtù corroboranti nella sua commedia “Clizia”, raccontando che il vecchio Nicomaco avesse fatto richiesta di cenare con “poche cose ma tutte sustanzievoli”, tra cui una mistura di fave e spezierie, prima di coricarsi con la giovane schiava.
Proprietà afrodisiache vere o presunte? Recenti studi scientifici avrebbero confermato la presenza nelle fave di principi attivi che, oltre a favorire lo sviluppo della dopamina, avrebbero il potere di risvegliare il desiderio e l’attività sessuale, facilitando la vasodilatazione. Inoltre, le fave sono molto ricche di proteine, fibre, vitamine (A, B, C, K, E, PP) e sali minerali, importanti per la loro azione di drenaggio dell’apparato urinario e quindi indicate in caso di infezioni, calcolosi renali e disurie. Sono ottime se consumate crude, per il loro basso apporto calorico (37 cal per 100g), purché si presti attenzione ad alcune caratteristiche di freschezza e qualità del prodotto, ovvero che il baccello appaia di un verde luminoso e sia turgido e croccante.
Per quanto riguarda il pecorino, invece, l’antichità delle sue origini è nota. Molti autori romani come Varrone, Plinio il Vecchio, Ippocrate e Columella, parlano dettagliatamente nei loro libri delle antiche tecniche di caseificazione, che non presentano, tra l’altro, modifiche sostanziali rispetto a quelle attuali. Questo pregiato formaggio dell’Agro Romano, uno dei primi ad aver conquistato il marchio DOP nel Lazio, era infatti molto apprezzato dai Latini per la sua capacità di conservazione, grazie all’alto contenuto di sale, abbinata ad elevato apporto nutritivo e digeribilità, che lo rendevano l’alimento principe della dieta dei legionari prima di una battaglia. Insomma, un abbinamento vincente quello di fave e pecorino, che affonda le sue radici a molti secoli fa e che, a tutt’oggi, permette di assicurarsi una carica di energia indispensabile per godersi appieno questa celebre giornata di festa!
Meno conosciuta, ma dalle origini ugualmente antiche è, invece, un’altra festività, la cosiddetta “ciummacata”, ovvero la festa delle lumache, che cade tradizionalmente il 24 giugno, in occasione del giorno di San Giovanni. La tradizione della “ciummacata”, molto sentita in provincia, specie ad Ariccia, Fiano Romano e Monterotondo, dove si svolge l’annuale sagra, deve le sue origini ad un’antica credenza romana, secondo cui la notte di San Giovanni, che capitava proprio vicina al solstizio d’estate, era da considerarsi magica. Quella notte, infatti, demoni e streghe si sarebbero risvegliati con l’intento di infestare la città, prima di recarsi all’annuale sabba presso il noce di Benevento. Nel loro passaggio avrebbero sorvolato la basilica di San Giovanni, ed era appunto lì che i romani si sarebbero riuniti per vederle passare.
Ma perché proprio le lumache divennero il “piatto tipico” della notte di San Giovanni? Le ragioni più valide trovano fondamento nella simbologia legata alle corna dell’animaletto. Nella tradizione romana esse rappresentavano, infatti, il demonio e tutto ciò che da esso consegue, dalla discordia ai tradimenti coniugali. Mangiando le lumache, quindi, si seppellivano nella pancia odii e rancori, in un rituale corale teso a cancellare differenze sociali e diverbi, e ci si garantiva pace e tranquillità. Inoltre, l’immagine dei cornetti che si protendono e si ritirano in continuazione era considerata un forte simbolo di sessualità e rigenerazione, il che rendeva le lumache utili anche alla conquista del vigore sessuale.
La chiocciola più utilizzata era, come oggi, la “helix aspersa” o lumaca di vigna, molto diffusa al centro e al sud e meno nobile della nordica cugina, l’“helix pomatia”, più grossa e dalla carne bianca e compatta, diventata nell’800 l’emblema dell’alta cucina francese. Sebbene siano ancora in molti a non poter neanche immaginare di vedere un guscio nel loro piatto, in Italia la coltura e il consumo di lumache sono andati aumentando in maniera esponenziale, arrivando fino a 360.000 quintali registrati nel 2008 dall’Istituto Internazionale di Elicicoltura.
Apprezzate per la loro economicità e disponibilità, le lumache vantano tuttavia una preparazione decisamente meno parca di tempo e pazienza. È consuetudine, infatti, dopo la raccolta, disporre i molluschi a spurgare per un periodo che varia dai due giorni fino alle tre settimane, durante le quali l’animale può essere tenuto sotto sale, messo a digiuno o nutrito solo con crusca. Trascorso quest’arco di tempo, la chiocciola viene lessata per almeno due volte, sgusciata, se necessario, e, finalmente, cucinata. Che siano in bianco, come le escargot francesi, o in rosso, con pomodori, mentuccia e acciughe, come vuole la scuola gastronomica romana, le lumache stanno vivendo, complice anche la crisi economica, un momento di grande riscoperta, che le vuole protagoniste di ricette e piatti gourmet persino accanto a pietanze di nota pregiatezza.
A Roma, purtroppo, malgrado la lunga tradizione, le lumache sono state un po’ dimenticate e non è sempre facile trovarle in menù. Ma si può presto rimediare puntando verso ristoranti poco fuori le mura, alcuni dei quali vi riportiamo qui di seguito, dove sarà facile trovare (di solito da maggio a settembre) questo piatto semplice e squisito.
di Flavia Rendina
(pubblicato su Aroma di maggio/giugno 2009)