Il Locale: La Pentola dell’Oro si trova nel quartiere artigiano di Santa Croce, appena fuori dalle piazze centrali di Firenze. L’ambiente è semplice e raccolto e lo chef accoglie personalmente gli avventori a prendere posto, guidandoli nella scelta dei piatti e soddisfando ogni loro curiosità. Di giorno è possibile accedere al Bettolino, la parte del ristorante in cui i clienti condividono i tavoli, angolo pensato per tutti coloro che per motivi di lavoro hanno minor tempo ma ugualmente voglia di comunicare e fare conoscenza.
Lo chef: Giuseppe Alessi nasce a Sesto Fiorentino nel 1937. Frequenta l’istituto d’arte a Sesto Fiorentino e il conservatorio L. Cherubini a Firenze. Proprio a Firenze parte la sua carriera culinaria in una piccola tavola calda nella zona di Campo di Marte. Nel 1980, l’anno della grande esposizione sui Medici, comincia a studiare la storia della cucina italiana adattando ricette e piatti antichi. Nel 1985 pubblica “Etruschi: Il Mito a Tavola”. Nel 1988 si trasferisce nei pressi del quartiere di S. Croce con il suo attuale ristorante “La Pentola dell’Oro”. Nel 1994 pubblica il libro “Alla Pentola dell’Oro”.
L’incontro: Lo chef Alessi mi accoglie nella sua cucina ancora assopita. Da poco è trascorsa l’ora di pranzo e i forni sonnecchiano in attesa di esprimersi per la serata. Mentre iniziamo la nostra chiacchierata, gli odori di spezie e agrumi iniziano a diffondersi per la sala, ancora buia e con le sedie sui tavoli, avvolgendoci come un provvidenziale plaid in una fredda serata casalinga.
La sua esperienza professionale comincia da…
Innanzitutto, al fondamento della mia vocazione c’è la golosità: sono una persona voluttuosa che ama profondamente i piaceri, è seguendo l’ispirazione artistica che catturo il momento in cui ho il sapore in bocca. Questa è la mia scuola di cucina, non l’arte di tagliare funghi come farebbe un prestigiatore. Di solito taglio lentamente e grossolanamente altrimenti mi taglio io! Gastronomo io? Non è una questione di gerarchia, semplicemente non mi riconosco in questa figura professionale. Mi propongo, piuttosto, come cuoco, come operatore del sapore, come “soggetto cucinante” che si pone di fronte al “soggetto mangiante”.
Come nasce l’idea del recupero della tradizione culinaria rinascimentale?
Le origini del mio pensiero non possono che risiedere nel ‘500: è grazie a uomini come Cartesio, Copernico e Galileo che il mondo è così come è ora, la mia intenzione è quindi quella di preparare oggi gli stessi piatti che nutrivano queste menti coraggiose. Al pari della rivoluzione astronomica anche la creazione culinaria mette ordine al caos: io sono un tradizionalista assoluto, che vede nello stato di quiete il fulcro del motore aristotelico dell’immobilità. Miro a ricercare la perfezione del momento. Eraclito diceva “per l’asino ci vuole la paglia, l’oro per i re”. Ebbene, le mie sono proposte per i re. Per fare il sugo alchemico dei tortelli che preparo al ristorante ho bisogno di quattro giorni non perchè continuativamente io debba tenere il sugo sul fuoco, ma perché alla fase solare, manuale, del giorno è poi necessario che segua una fase di riposo per la fermentazione… se possibile in un recipiente di terracotta in una cantina scavata nella roccia nella torre medievale in cui vivo con mia moglie, non qui in città. Là nella notte ottengo lo sviluppo di certi aromi che a Firenze non potrei avere: preferisco quindi cuocere 2 ore al giorno per 4 giorni piuttosto che 8 ore di seguito. Peccato non poter utilizzare gli utensili dell’epoca…ma con l’ufficio d’igiene come la mettiamo?! Certi materiali, visto che il loro uso è vietato, non si producono nemmeno più.
Qual è il profilo degli ospiti de La pentola dell’oro?
Mi premia quel pubblico che per nostalgia o per reazione realmente sente che bisogna andare oltre le apparenze della presentazione del piatto e del menù. Il valore aggiunto delle mie offerte non comunica con la civiltà delle apparenze. Vero è che bisogna accattivare e catturare l’attenzione del cliente ma io mi pongo con la semplice offerta del piatto cercando però di affiancare alla letteralità della mera elencazione degli ingredienti la letterarietà delle spiegazioni delle loro origini di provenienza.
Cosa pensa del modo moderno di approcciarsi al piatto?
Trasecolo quando sento dire che non c’è bisogno di assaggiare il cibo mentre lo si cucina perché da me va a finire che di una cosa che cuciniamo è più quello che ho mangiato io di ciò che arriva a tavola! Dobbiamo continuamente constatare de visu e de ore se il sapore sta procedendo nella sua giusta evoluzione gustativa. Mi spiego meglio. Di una cipolla dovremo sapere qual è il suo grado di sapore da cruda prima di farla fondere o caramellare.
Come mai parla al plurale?
Mi considero una persona completa solo con mia moglie Margherita, senza di lei a me manca una polarità con la quale devo far circolare l’energia. Se manca un altro polo l’energia non si usa e si va in corto circuito. In questi lunghi anni di attività ci siamo conquistati uno status di assoluta tranquillità, abitiamo in una antica torre medievale con attorno tre ettari e mezzo di terreno e abbiamo tutto ciò che ci serve per condurre una vita decorosa senza avere la pretesa della barca o della seconda casa al mare.
Come si pone dinnanzi alla modernità?
Netto è il mio contrasto nei confronti del mondo moderno eppure mi rendo perfettamente conto che nelle varie forme di arte contemporanea senza l’ausilio della parola è molto difficile accedere alla simbologia semantica e comprendere le intenzioni dell’autore, anche in campo gastronomico. Non sono un ristoratore anche perché significherebbe avere a competere con gente che sa catturare cappelli e forchette d’eccellenza che a me non emozionano affatto. Le riconosco e le apprezzo ma non sono nelle mie corde. La mia proposta è virtuosa, poco capitalizzabile per un imprenditore che punta all’utile immediato. Questa società corre in attesa del minuto successivo, non fa per me. Chi entra qui non deve avere fretta.
Quali le differenze tra le ricette della cucina moderna e le proposte del passato rinascimentale?
Da una parte vi è l’intenzione di mantenere il più possibile la saporosità naturale degli elementi impiegati affinchè siano sempre riconoscibili. Dall’altro lato c’è il presupposto che tutto vada fuso, completamente amalgamato per avere un composto iniziale su cui poi iniziare a creare le proprie saporosità.
Lei ha scritto numerosi testi di cultura gastronomica ed è un ex studente di musica: qual è il rapporto fra quest’ultima e l’arte culinaria?
Nella musica prima di avere le parti soliste c’è stata un’espressione corale, come nel canto gregoriano. Ebbene, io propongo saporosità corali. Il dolce per me non è mai dato dallo zucchero ma da una serie di elementi che producono una sensazione di dolcezza ottenuta come minimo unendo tre quattro elementi che diano spessore al dolce, siano essi miele e marmellate. Per poter cogliere in un piatto come il peposo o il cinghiale le saporosità impiegate pensiamo a chi va ad un concerto di musica classica e ascolta una sinfonia di Schubert. Bisogna che abbia un orecchio ben esercitato per carpirla nel suo insieme: orchestrazione, armonie, contrappunti… quanti sono coloro che riescono a distinguere i movimenti delle varie famiglie di strumenti? Questo differenzia la musica classica dal resto della musica. Non ci sono semplificazioni o ricerche di immediatezza. Come la mia cucina, estremamente profonda e ricercata.
Tra 50 anni cosa mangeremo?
Io ne ho 72, tra 50 anni non ci sarò più sicchè…
(pubblicato su Aroma di marzo/aprile 2009)