Una chiacchierata con il grande (in tutti i sensi) chef della Torre del Saracino di Vico Equense, straordinario interprete di una “cucina del mare e del sole”
Avvisti la Torre del Saracino quando il borgo marinaro di Seiano, in quella meraviglia della natura che è la Costiera Amalfitana, ti ha già accolto: è una sorta di buen ritiro che ti si para dinnanzi quando il paese è già finito o è appena cominciato: qui si mastica davvero grande cucina…
C’è un’immagine bellissima che non riesco a fugare dalla mente. Risale a qualche mese fa quando, con l’estate alle porte e i primi desideri di spogliarsi dei fardelli con cui ci proteggiamo dai freddi invernali, mi trovavo in Costiera alla “Festa a Vico”, un incontro dell’alta gastronomia con il pubblico, dove si alternano ai fornelli i più rinomati chef e le giovani speranze della ristorazione italiana: è quasi l’una di notte e il centinaio di cuochi (sì, avete letto bene: circa 100!) che vi hanno partecipato, dopo aver dispensato a ritmo continuo piatti come la “trippa di baccalà e caviale con ricotta, taccole e pancetta” o il “petto d’anatra laccato con puré di ceci e salsa al lardo affumicato” a tutti gli astanti (accorsi a frotte), finalmente può rilassarsi e lo fa con lo stesso spirito con cui ha condotto la serata. Insieme, come fossero una squadra e non delle primedonne in competizione, ridendo, scherzando e armeggiando con gli attrezzi del mestiere. Quello che creeranno, verosimilmente sublime, non so, forse rimarrà confinato negli spazi della privacy golosa di questi straordinari professionisti…
Gennarino (al secolo Gennaro Esposito, una stazza d’uomo che supera abbondantemente la tonnellata su cui è imperniata una faccia ridente da eterno ragazzino sebbene si avvicini agli ‘anta) merita senza dubbio una menzione speciale tra coloro che, grazie al loro operato, mandano in estasi i vostri sensi, spostando il confine del buono e del buonissimo un’oncia più in là del conosciuto. Una vocazione che Gennarino ha saputo trovare dentro di sè non essendo figlio d’arte: padre operaio, madre bracciante (e ottima cuoca) dalla quale ha ereditato i valori e i sapori della terra e delle tradizioni e la necessità di arrangiarsi in cucina.
“Quando andavamo al mare la nostra merenda era pane e pomodoro: una dedica alla stagionalità, al momento e all’ispirazione di mia mamma che in cucina era una persona molto conservatrice. La sua era una cultura culinaria che partiva dal prodotto, dal luogo e dall’interazione con gli eventi che si ripercuotevano nella cucina: la mietitura, la vendemmia, la raccolta dei pomodori che scandivano le stagioni e il tempo. Ritrovare quei sapori dopo un anno, il pomodoro, il mosto dopo la vendemmia, dava questo riferimento spazio-temporale alla famiglia (ndr gli Esposito sono originari di Vico Equense). Non abbiamo mai avuto merendine: quando avevi fame semmai dovevi cucinarti qualcosa da solo”.
Gennaro Esposito comincia a lavorare nella pasticceria dello zio ma poi scopre la sua vocazione: “Mi affascinava il fatto di poter trasformare la materia: l’uomo al centro di tutto, perfettamente calato, in modo “tolemaico” direi, nel suo ambiente. Un percorso che dagli ingredienti porta a nobilitare le cose. Guardavo sempre mio zio ed i suoi gesti: questo artigiano fiero delle sue creazioni e dei suoi prodotti. Mi sono immaginato un futuro in questo modo, mi intrigava molto! Mi sentivo però più a mio agio nella cucina, qui era un fatto meno chimico: le dosi, il pesare, volevo essere svincolato dal grammo che invece è fondamentale in pasticceria. La cucina ti lascia più spazio, il momento della creatività lo vivi in maniera diversa. Così ho cominciato a lavorare nei ristoranti e a frequentare la scuola alberghiera”.
Diventa, poi, allievo di Alain Ducasse e infine rileva quello che allora era una sorta di piccolo club dove le persone venivano a trascorrere i mesi estivi: nasce così La Torre del Saracino, oggi ristorante raffinato segnalato da tutte le maggiori guide. Pochi coperti, cucina che si ispira ai sapori originari degli ingredienti, anche se assemblati con finezza e con un tocco di estro imprevedibile. “Siamo partiti dai prodotti del territorio ma in cucina lo scenario cambia e non puoi passare la vita a riprodurre ricette, devi necessariamente metterci del tuo. Per noi è stato basilare: si trascorrono 14 ore in cucina e non puoi sentirti una specie di gusto-copiatrice. Così pian piano sono comparse sempre più nuove suggestioni nei nostri menù, maturate con esperienza. Vai in giro, prendi contatti, scopri prodotti nuovi, nuovi sapori. Tutto contribuisce ad arricchire il valore del prodotto che rimane comunque fondamentale. Insomma: la nostra è una cucina essenzialmente di territorio ma con una visione meno schematica e rigida di quello che può essere una cucina tradizionale”.
Tutto all’opposto di sperimentatori ultrà come Ferran Adrià (il vate della gastronomia molecolare) sembrerebbe, ma Gennarino ci sorprende: “A volte il nuovo ci spaventa troppo! Soprattutto noi italiani che teniamo ben salde le radici della tradizione. Ci vuole però anche uno sdoganamento, una liberazione da ogni schema prefissato là dove non esistono regole né stereotipi ma solo la volontà di ottenere una consistenza, un gioco di sapori… Guardo con estrema ammirazione a chi ha saputo sconvolgere i canoni convenzionali ed è giusto che ognuno faccia la cosa in cui si identifica di più. Il consumatore però deve avere un approccio diverso. Oggi ha la possibilità di sapere dove sta andando, che cosa troverà, chi è lo chef, qual è il suo percorso, il suo stile. Si può davvero scegliere in base ai propri gusti. Ma se da una parte noi “fornitori” dobbiamo fare in modo che la nostra offerta non sia statica o appiattita, a sua volta anche il “cliente” deve essere disponibile alla scoperta e non sedersi a tavola pretendendo che il cibo sia – sempre e comunque – quello che aveva immaginato fosse…”.
Gli incontri ed i confronti con gli altri addetti ai lavori diventano un momento topico per scambiarsi idee ed esperienze, che poi si spera riusciranno ad influenzare ed orientare i gusti del pubblico…
“Quando ero all’inizio ho avuto come riferimento degli chef che erano molto gelosi e dovevi rubare loro il mestiere. Credo invece che questa attività vada affrontata con la gioia di voler trasmettere il proprio sapere. Poi ho avuto la fortuna di incontrare persone entusiaste di diffondere la propria conoscenza. Alain Ducasse, a me che ero appena un ragazzo, ha aperto le porte dei suoi ristoranti: tutta la sua cultura, gli ingredienti, la trasformazione, le ricette… La generosità è una dote indispensabile nel nostro lavoro. Non possiamo essere gelosi delle cose che possono migliorare la vita e nasconderle. Al contrario bisogna che si trasmettano agli altri, è il mio pallino. In Italia è innegabile un certo fermento attorno alla gastronomia, c’è un gruppo di persone che lavora – ognuno con i suoi modi e con il suo stile nel territorio di appartenenza – ma che ha grande piacere di vedersi, di confrontarsi, di condividere esperienze“.
Il rapporto tra il cuoco e il recensore del suo lavoro non sempre è idilliaco, come dimostra la polemica innescata da Gualtiero Marchesi contro la faziosità delle guide…
“E’ necessario avere un grande rispetto dei ruoli: tu fai il critico e io faccio da mangiare punto. Abbiamo entrambi un compito delicato e soprattutto siamo in due ad alzarci la mattina per cercare di fare sempre meglio. Non voglio pensare che vi siano critici che pretendano di essere sopra le cose e gli uomini, pur di essere protagonisti. Preferisco continuare a credere che l’ispettore sia un compagno di viaggio, qualcuno che ti può dare buoni consigli soprattutto perché è o deve essere esperto, sensibile e competente. Pensa quanto sarebbe tutto banale, scontato e vuoto se non ci fosse la critica, anche quella dei clienti, naturalmente. Non avresti mai stimoli e confronti dialettici, nessuna possibilità di crescita.
Il mio lavoro è fatto di tanti momenti importanti, dall’accoglienza all’assistenza durante la scelta del menù, dal consiglio del piatto alla persona che hai cominciato a conoscere (e che pensi sia più curiosa di assaggiare questo o quello), alla spiegazione, al modo giusto di presentare ciò che si appresta a gustare. E sapere che alla fine della cena uscirà soddisfatto è per me la più grande gratificazione, al di là delle stellette o forchette e tutti i premi della critica”.
(pubblicato su Aroma)