Attento e rigoroso. Orgoglioso di essere italiano tanto da esportare all’estero, attraverso il suo marchio, i sapori del Belpaese. Claudio Sadler, un milanese italianissimo che non ha mai smesso di puntare in alto.
Gualtiero Marchesi e Georges Cogny, due capisaldi della sua formazione professionale. Cosa l’ha colpito dell’uno e cosa dell’altro?
Due personaggi opposti tra loro ma anche due grandi maestri dai quali ho appreso moltissimo nel corso del mio processo di formazione professionale. Da Marchesi per esempio ho appreso che questo non è solamente un lavoro ma un’espressione d’arte, un modo per dar sfogo alla propria vena artistica e creativa. Ho imparato che la disciplina, l’organizzazione e il metodo sono la base di tutto per ottenere un buon risultato. Cogny era una persona che conosceva il mondo della ristorazione molto bene. Come un grande musicista cambiava lo spartito e lo eseguiva a seconda del suo umore e delle sue sensazioni. Forse era un po’ naif ma le sue libere interpretazioni e le sue continue variazioni anche dello stesso tema mi hanno fatto capire che è possibile creare e rivedere ogni piatto della cucina tradizionale senza necessariamente partire da zero.
Per anni ha lavorato in cucina e insegnato. Qual è, secondo lei, il valore che oggi dovrebbe ricoprire la formazione scolastica nel mondo della grande ristorazione?
Lo dico a malincuore, ma la scuola attualmente non è in grado di garantire una preparazione completa. I neo diplomati si integrano difficilmente nelle cucine dei ristoranti dove, spesso, si deve ricominciare daccapo. A mio avviso si dovrebbe individuare un metodo mirato in cui pratica, teoria e passione possano trovare la giusta sintesi. Ad ogni modo sono fermamente convinto che la soluzione sia soprattutto nelle finalità del metodo e quindi dell’insegnamento: la formazione deve essere finalizzata alla figura che si vuole formare e la selezione deve avvenire in base alle reali capacità dell’allievo. È inutile procedere con l’insegnamento di determinate nozioni quando si hanno davanti delle persone che nella vita vogliono fare tutt’altro.
E’ così legato alle tradizioni della cultura gastronomica italiana tanto da trasferirle all’estero. Ci parli delle esperienze in Giappone ed in Cina.
Credo che la fondamentale esigenza “esterofila” sia quella di scoprire la vera italianità nel piatto che è altro dalla pizza e dagli spaghetti. Gli stranieri vogliono mangiare a casa loro come mangerebbero in un qualunque ristorante di Milano, Firenze, Roma o Napoli. E non è certo cosa da poco, considerando che in questo processo di internazionalizzazione ci scontriamo costantemente con il colosso francese supportato saldamente dagli enti di esportazione nazionali che rendono tutto più semplice. Nel nostro caso è evidente che questa organizzazione di base non c’è e quindi, chi come me, si trova a voler aprire un ristorante di “fine dining” oltre i confini nazionali, deve necessariamente affidarsi all’arte dell’arrangiarsi almeno per quanto riguarda il reperimento della materia prima. Un’operazione relativa alla cernita e non certo alla qualità!
Quanto incide la tradizione nelle sue creazioni?
Molto. In ogni mio piatto c’è sempre un elemento proprio della tradizionale gastronomia nazionale e non conta la regione di provenienza, l’importante è che ci sia la componente Italia.
La sua collaborazione con McDonald ha rappresentato una novità assoluta nel mondo della grande ristorazione. Come si può coniugare qualità con low cost e fast food?
Basta con i falsi pudori. Un lavoro se è fatto con coscienza e soprattutto se è in grado di migliorare la proposta di un servizio di largo consumo come quello di McDonald, ha tutto il diritto di essere riconosciuto e apprezzato. Se poi aggiungiamo una generosa dose di divertimento, allora il merito è assicurato!
Quali sono, secondo lei, le caratteristiche necessarie per poter intraprendere la carriera da chef?
La passione innanzi tutto, la voglia di fare, di creare, di procurare piacere agli altri attraverso il cibo. E poi non devono mancare sensibilità e una gran dose di sacrificio, senza questi due elementi è meglio cambiare strada…
Nel lavoro su quale aspetto proprio non transige?
Ovviamente la materia prima, senza l’eccellenza dei prodotti non si può ottenere un ottimo risultato in cucina. E poi disciplina e rigore nella mia brigata, l’obiettivo da raggiungere in ogni servizio è l’eccellenza, tanto nella forma quanto nel contenuto. Questo deve essere il leitmotiv di chi lavora con me.
Se non avesse fatto lo chef cos’altro avrebbe voluto fare?
Non so, forse il geometra, o magari il chirurgo, un modo diverso per fare del bene agli altri.
(pubblicato su Aroma di gennaio/febbraio 2009)