Aroma incontra la grande chef spagnola, regina del Sant Pau di Sant Pol, santuario del gusto osannato dal pubblico e dalla critica.
A: Come è nata la scintilla della passione per la cucina?
C: Sono figlia di una famiglia di agricoltori e commercianti. A casa c’era sempre qualcosa da fare, aiutare a piantare e raccogliere, a vendere e cucinare. Ho ricordi d’infanzia di quando ancora bambina dovevo preparare la cena per tutta la famiglia che era in campagna a lavorare. Avevo acquisito abilità e tecnica, ma non pensavo che nel mio futuro queste doti mi sarebbero risultate utili. Terminati i corsi di commercialista e ragioniere, volevo intraprendere una carriera con indirizzo artistico. Una scelta culturalmente estranea alla mia famiglia e osteggiata anche dalla scuola religiosa che avevo frequentato. I miei genitori mi proposero allora di trasformare la nostra piccola bottega rustica, in cui vendevamo i mangimi per gli animali domestici. In quel periodo tutti avevamo conigli e pollame per il proprio consumo, si vendeva il latte delle mucche, si vendeva il vino della vigna e anche le fragole di queste parti. Potevamo cominciare a cambiare e a trasformarci in una bottega moderna: in quel momento il formato dei mini-market era un modello importato dall’America. Io accettai, perché sono sempre stata una bambina compiacente, e cominciai a imparare tecniche di salumeria; qui nella Catalogna c’è una serie infinita di possibilità che ti offre il suino, esistono i tipi più disparati di salsiccia, dalla bianca alla nera, la salsiccia piccante, quella di zucchero e mille diversità che si prestavano ad organizzare la mia bottega come salumeria. In casa avevamo il maiale e quindi potevo offrire al pubblico carne fresca ed elaborata: scopro che posso fare mille cose alla mia maniera. Oggi possiedo addirittura due orecchini portafortuna che raffigurano due teste di maiale, l’animale che mi ha reso una persona appagata e creativa. Questa creatività nella salsiccia l’ho realizzata in un confronto dialettico con il pubblico, nella complicità di chi vuol fare cose diverse. Così ho iniziato felicemente a dare il meglio di me.
A: Se dovesse lavorare con un aspirante chef quale sarebbero i consigli che gli darebbe?
C: Io lavoro con 18 cuochi, tutti formati nelle scuole, che hanno scelto la professione liberamente. Tanti hanno l’idea di aprire un loro ristorante. Il mio consiglio spassionato è: acquista il prodotto migliore che il mercato ti può offrire, prenditi cura di esso, impara a conservarlo bene nella dispensa e a cucinarlo nel modo in cui possa esprimere tutte le sue potenzialità. Non distrarti, perché non perda nulla del suo carattere naturale, dopo metti la tua fantasia, il tuo gioco, la tua idea. Preparalo in modo diverso, risveglia l’interesse dell’ospite, se vuoi cucinare un calamaro, cucinalo con estro. Questo è il mio suggerimento e questa è la linea di lavoro che applico nel mio ristorante “Sant Pau”.
A: Qual è il limite che bisogna dare, se si può dare, alla fantasia di uno chef?
C: Penso che la fantasia non debba essere limitata. Sono dell’opinione di vietare il vietato, non devi mettere un paletto, la cucina va avanti perché per sua stessa natura si presta all’immaginazione e all’invenzione sempre nuova e diversa. Quando poi il piatto è equilibrato in tutti gli ingredienti che lo compongono, allora è anche digeribile. Sai che una cucina è buona perché il giorno dopo stai bene. Uno chef deve curare naturalmente l’estetica perché è il primo senso, ma il piatto deve dischiudere profumo, indizio che ti dice che è appetitoso, io addirittura vorrei anche che facesse “rumore”, perché pure questa è musica nel palato, e rimarrà impressa nella memoria. Nell’arte di mangiare, io non ho mai pensato “questo è proibito”, si può sempre argomentare ma non porsi dei limiti.
A: Da cosa trae ispirazione per creare un nuovo piatto? E’ vero che dietro ogni proposta c’è una cura maniacale e mesi di prove?
C: Creare un menù è come accordare una sinfonia alle stagioni che arrivano. Mentre sto completando una carta, sto già lavorando alla prossima. Per esempio, in inverno giunge il Natale, fa freddo, ci sarà la caccia, una cucina più calda, più contundente. Questo è un punto di partenza, offrire i prodotti di mercato, che è meglio consumare subito perché hanno una vita breve, effimera e conviene mangiarli nel momento migliore, quello della maturità. E’ un po’ anche come scrivere una sceneggiatura, un menù esclusivamente per l’inverno. Creo una danza di prodotti, che vanno insieme, coppie di sapori che funzionano. Non hai una dottrina o un dogma di fede. Dietro ogni piatto esiste un accurato studio, quell’equilibrio di sapori, la sua visualizzazione cromatica, c’è tutta una passione e una trepidazione per la risposta del pubblico. L’evoluzione è costante, un piatto non è mai finito, c’è sempre qualcosa che non lo rende risolto. In questo senso è fondamentale possedere una sensibilità artigianale, da cui scaturisce quel capriccio irripetibile capace di rendere unico un piatto.
A: Il rapporto con il famoso “territorio” sembra ormai indispensabile. Ma non c’è il rischio di proporre una cucina noiosa?
C: No, mai. E noi siamo un esempio. Noi siamo sempre nello stesso posto, quindi disponiamo degli stessi prodotti, non ci muoviamo, non ce ne andiamo di qua e di là, dunque a prevalere è la volontà di continuare ad intepretare, con le medesime materie prime, ma rispondendo a sempre nuove sollecitazioni. Un calamaro lo presento in diverse maniere, con diversi elementi. Un prodotto può essere addirittura reinventato ogni anno, se hai la capacità e ci metti la volontà di farlo. Immaginate come sarebbe noioso dover tornare a replicare in modo pedissequo, senz’anima, lo stesso modello…
A: La ristorazione italiana, il suo maggior pregio ed il suo peggiore difetto…
C: Siamo affratellati da una visione gustativa e ludica assai simili, ci piacciono le stagioni, ci piace la vita fuori, amiamo criticare e competere per riuscire a fare meglio il riso l’uno rispetto all’altro. Non posso pensare, come avviene anche da noi, che con tanti prodotti eccezionali e una così profonda cultura enogastronomica, in zone turistiche purtroppo esistano ancora quei famigerati menù turistici che propinano una cucina vergognosa. E’ una vera foto disastrosa, un’immagine terribile mentre scopro che, diversamente da quello che accade in Italia o Spagna, a Tokyo si può mangiare bene dovunque, persino in un posto umile dove comunque c’è mai niente di malfatto o trascurato. Al contrario, sono convinta che nei luoghi in cui passano orde di turisti si facciano tuttora delle cose infami, per cui dobbiamo tutti lavorare sodo e impegnarci al meglio per restituire dignità alla ristorazione in generale.
A: Cosa ha rappresentato ricevere nel 2006 il premio come miglior chef di Spagna?
C: Una grande soddisfazione. Premiare una cucina diretta da una donna per una giuria maschile è stato un atto di coraggio. Non ho mai avuto complessi di inferiorità rispetto ai miei colleghi maschi, non mi sono sentita mai emarginata da nessuno, anche perché sono stata la prima a non isolarmi; ho sopportato le stesse fatiche degli chef uomini, mi sono applicata con il medesimo rigore e volontà, per questo sono piena di forza e non abbasserò mai la guardia. E’ un chiaro messaggio per tutte le donne che hanno scelto questa professione: posso dir loro che se ti proponi degli obiettivi puoi raggiungerli, basta avere la volontà di perseguirli.
A: La cucina è un mondo femminile eppure non esistono agevolazioni, si parla sempre di uomini chef: perché secondo lei?
C: Mi ricordo che nei primi congressi gastronomici c’era solo una sparuta presenza di donne. Qualche tempo fa, nella lista di convocazione della convention di Soria, figuravano invece numerose rappresentanti femminili importanti: ciò significa che stiamo avanzando a piccoli passi ma con molta determinazione. Attualmente la tecnologia ha facilitato la cucina moderna, prima per gestire una cucina professionale dovevi essere dotata di forza fisica, la donna non accennava neanche ad entrare perché non le era permesso e soprattutto per non essere oggetto di scherno, o sentire bisbigliare: “Non ce la fa, la puoi aiutare?”, “Non riesce ad alzare il vassoio pesante”, “Non riesce a caricare la cucina con legna o carbone”. Invece oggi una donna può portare un vassoio universale 1/1 pieno dove vuole e i forni sono fatti per questa misura standard. Così infine è caduto anche l’ultimo tabù, ora bisogna solo mettere le idee, l’immaginazione, la capacità, l’impegno, per lavorare e superare così le differenze tra uomo e donna.
A: Quali sono le difficoltà che ha incontrato nel suo lavoro?
C: Delle difficoltà le trovo ogni giorno. Un prodotto che spesso aspetti a lungo sul mercato, basta un temporale e non c’è più; preoccupazioni ricorrenti, tipo che l’equilibrio nell’equipe che hai costituito si rompa; una malattia capitata a qualcuno del tuo personale, e non poter più contare su di lui; la stanchezza. Tante difficoltà, che puoi vincere con la volontà di superarle, con una forza mentale e una disposizione positiva ad affrontarle. La nostra innegabilmente è una carriera piena di ostacoli, se al primo impedimento ti fai abbattere, devi chiudere subito. Non bisogna perdere la capacità di concentrazione per non cantare mai una canzone stonata, il segreto risiede nell’avere uno spirito perfezionista con immaginazione. E’ imperativo non mollare mai, impresa assai ardua quando si parla del “Sant Pau” con ben 32 persone alle spalle. E’ dura e ce la puoi fare solo perchè sei innamorato della tua professione, che ti dà la forza per non demoralizzarti e andare avanti.
A: Chi è stato nel suo ristorante lo ha definito un posto magico, dichiarando che la sua cucina è come lei: femmina, evolutiva, battagliera, affascinante, una vera forza della natura. Si ritrova in queste affermazioni?
C: Sì, sì, è vero, mi identifico con la verità e l’autenticità. Io faccio una cucina che si spoglia, una cucina nuda, una cucina che cerca di abbellirsi con naturalezza, è un tipo di cucina sensuale molto comprensibile, dove si sente il profumo, e quando l’hai vista per la prima volta, l’hai capita, e finisci per comprendere tutto quando la assapori.
(pubblicato su Aroma di marzo/aprile 2009)