Sono sposato con una bellissima donna di nome Antonella e sono comproprietario di un prestigioso cane da compagnia di nome Rocky.
Mi occupo di fotografia, grafica e gastronomia.
Ho collaborato – tra gli altri – con Abitare, Apicius, Autogrill, DeAgostini, Elle, Fiat, Gambero Rosso, Guide Rouge Michelin, HO.RE.CA,
Il Corriere della Sera, Il Giornale, Il Sole 24 Ore, La Repubblica, La Stampa, Lavazza, Le Figaro, L’espresso, Panorama, Pitti Immagine, Rai Sat, Slow Food, Telecom Progetto Italia, Travel+Leisure Magazine, la Triennale
e L’Università di Scienze Gastronomiche. Insieme alla scrittrice Alessandra Meldolesi ho pubblicato i libri “Cracco, sapori in movimento” (Giunti), “Grandi chef di Spagna” (Giunti) e “6, autoritratto della cucina italiana d’avanguardia” (Cucina&Vini). Curo inoltre due rubriche
settimanali sui siti www.identità golose.it e www.lomejordelagastronomia.com
Alessandra Meldolesi, con la quale lei ha lavorato al progetto “6, Autoritratto della Cucina Italiana d’Avanguardia”, in una recente intervista afferma che nell’ambito dell’iconografia gastronomica si parla sempre più spesso di food porn, in quanto alcuni libri utilizzano le stesse seduzioni delle riviste per adulti, tendendo a catturare l’attenzione sollecitando il desiderio a livello subliminale con immagini sensuali, ammiccanti o allusorie. Cosa pensa a tale proposito?
Premetto di non trovare nulla di scandaloso nella pornografia, senza la quale la mia adolescenza sarebbe stata senza dubbio più noiosa… Difficile oltretutto stabilire un comune senso del pudore gastronomico o, meglio, definire esattamente dove finisce l’eros e inizia il porno: dipende sempre dall’ottica e dalla testa di chi guarda. Un’immagine di cibo deve per sua stessa natura invogliare e suscitare desiderio, creare un’attrazione, quindi essere erotica, sensuale. Il primo a citare la pornografia gastronomica è stato Gualtiero Marchesi, un’idea poi ripresa da molti altri, tra cui Carlin Petrini ed Alessandra Meldolesi. Un caso di food porn riguarda una recente iniziativa editoriale: sul mensile HO.RE.CA in ogni numero appare un mio servizio (il Paginone) in cui il piatto viene messo in risalto con una impaginazione dichiaratamente ispirata a Playboy. Più sexy di così…
Secondo Amanda Simpson, ideatrice del blog Food Porn Daily: “Il food porn, l’arte di abbandonarsi alla seduzione del cibo, è il kamasutra dei foodies, lo straordinario culinario da contrapporre alla banalità del precotto o surgelato, che per i voyeur gastronomici è pura noia, tanto quanto la posizione del missionario”. Si trova d’accordo con questa dichiarazione?
Ho notato che questi siti e blog puntano di più sull’aspetto “peccaminoso” del piatto che sulla qualità dell’immagine o la sua capacità di suscitare il desiderio. Per peccaminoso intendo proibito, sinonimo di eccessivo, magari perché realizzato con ingredienti ipercalorici oppure in quanto particolarmente elaborato, opulento: il troppo, dunque, piuttosto che l’appeal estetico.
Sempre negli Usa spopolano personaggi come Giada de Laurentis e Nigella Lawson, icone dell’erotismo gastronomico, ad avvalorare il più scontato dei luoghi comuni: l’idea che cibo e sesso siano perennemente collegati… anche se sappiamo che il cibo è afrodisiaco solo quando lo comanda la testa. Ma quali sono le tecniche usate dal fotografo per stimolare la componente erotica dei piatti? E quali sono tra i cibi i soggetti che meglio si prestano?
Non esistono tecniche o cibi particolari, un arancio diviso in due spicchi può avere una valenza sensuale ed essere attraente. Il connubio cibo-sesso è inscindibile proprio in quanto fondato su due istinti primigeni, l’alimentazione e la riproduzione, che garantiscono entrambi la sopravvivenza della specie. Dopo il respirare, sono le funzioni vitali per definizione, quindi, ed esprimono il massimo della naturalità. Qualsiasi persona, anche la meno interessata al cibo, viene coinvolta in questo fenomeno, pertanto spostare il discorso soltanto sull’alta cucina sarebbe quanto meno riduttivo, riguardando la funzione fondamentale del nutrirsi.
L’oggetto del desiderio dei foodies è quindi prima di tutto il bello da vedere. Ma in questo modo non si corre il rischio di dare troppa enfasi all’aspetto visivo rispetto a quello gustativo? In altre parole, la bellezza di un piatto non rischia di eclissarne la bontà?
E’ indubbio che una foto di cibo sia ben fatta quando riesce a trasmettere appetito. Marchesi ha detto che ciò che è bello deve essere necessariamente buono, ma a mio avviso la bellezza di un piatto non ha nulla a che vedere con la sua bontà. In questo la penso diversamente da Marchesi, che comunque nella mia scala di valori rimane un pelo sotto Gesù Bambino. Possono esserci cioè piatti belli ma non buoni al gusto. E’ pur vero, però, che spesso le cose buone in natura sono anche piacevoli alla vista, il colore ad esempio esercita una potente attrazione. Esiste pertanto una sorta di codice naturale, tutto giocato sugli istinti animali, che è in grado di riconoscere in maniera più o meno conscia l’attrattiva di un cibo, in virtù anche della sua piacevolezza cromatica.
Come è approdato alla food photography?
Sono da sempre un grande appassionato di grafica e fotografia, che ho coltivato come passione proprio per non guastarmi il gusto di farla, come sarebbe probabilmente accaduto se l’avessi scelta come professione (Bob è commerciante di meccanica NDR). Col food, l’altro mio grande amore, ho cominciato sviluppando tecniche specifiche durante i pasti, in diretta, ritraendo lo svolgimento di una cena al tavolo, ovvero non in studio. Il nome di una mia rubrica “Prima che il piatto si raffreddi” spiega bene la dinamica dell’esperienza. Sul campo è un lavoro più difficile, naturalmente, ma assai più sfidante rispetto a quello realizzato in studio, ogni situazione è diversa dall’altra e le soluzioni di conseguenza fatte su misura, decise caso per caso.
Quali sono gli elementi in un piatto in grado di colpirla ed ispirarla? E’ un discorso di originalità, colore, simmetrie, oppure ogni piatto ha in sé un lato bello, magari solo un po’ più nascosto, come per una persona?
Ci sono cibi e piatti che sono davvero delle iatture, molto ostici da fotografare, vedi le minestre di verdure, i risotti, in genere le preparazioni con tinta monotonale, anche se è sempre possibile tirare fuori il bello pure da questi soggetti, come nel caso del “risotto grigio e… nero” di Massimo Bottura, una delle mie prove più difficili, ma riuscite. Ovvio poi che, al pari della fotografia tradizionale, il lato estetico e la fotogenia contano eccome, con nel mirino una come Claudia Schiffer sarebbe più difficile sbagliare e altrettanto con un piatto oggettivamente bello. Quando non è così si può ricorrere a qualche accorgimento, il richiamo al colore, abbiamo detto, ad esempio i fiori aiutano tantissimo nella composizione di un piatto e nella sua valorizzazione.
Come funziona il lavoro con uno chef? Questi partecipa alla composizione del piatto per conferirgli l’aspetto fotogenico desiderato oppure è soprattutto l’abilità del fotografo ad esaltare la creazione culinaria?
Il cuoco è importantissimo ed è basilare che tra lui e il fotografo si instauri un rapporto di stretta collaborazione anche perché, come ripeto sempre, il piatto è rotondo e la foto invece rettangolare… Di solito preferisco riprodurre le preparazioni non impiattate, per estrarre tutto il loro senso plastico, scultoreo. Con alcuni chef mi sono molto divertito nella realizzazione delle immagini, penso in particolare agli chef spagnoli, maestri di piatti scenografici e assolutamente fotogenici perché già contenenti un richiamo intrinseco, e agli chef avanguardisti del libro “6”, insuperabili nell’arte della presentazione. Il lavoro di design del piatto è infatti essenzialmente curato dallo chef.
Che consigli darebbe a chi si accosta per la prima volta a questo genere di fotografia? Anche in termini di attrezzatura?
Scattare, scattare il più possibile e non usare mai il flash perché appiattisce inesorabilmente e crea ombre. Io infatti uso sempre un mini cavalletto da tavolo per evitare tale inconveniente. Per la ritrattistica dei piatti mi affido ad una compatta, una Canon f90, con cui mi trovo molto bene, mentre per i reportage dei cuochi al lavoro in cucina impiego una reflex, una Canon EOS 450D, dalle grandi prestazioni.
Una sua opera, tra quelle pubblicate, a suo avviso particolarmente completa e significativa.
Certamente “6”, perché è stato progettato in totale libertà e senza alcun condizionamento, permettendoci di fotografare la cucina italiana d’avanguardia nella sua verità, immortalando i suoi più audaci interpreti, capaci di esprimerne compiutamente la straordinaria carica di novità.
Lei è stato uno dei primi estimatori di Ferran Adrià e dei Grandi Chef di Spagna, di cui ha realizzato una splendida monografia pubblicata da Giunti: chi nel mondo detiene oggi il primato gastronomico?
In effetti era il lontano 1995 quando scrissi su Panorama Travel il primo articolo italiano su un allora sconosciuto o quasi Ferran Adrià. Quando parlai di piatti come il carpaccio di cervella con crema inglese e gelatina di acqua di mare molti arricciarono il naso, in realtà si trattava di piatti assolutamente armonici e soprattutto buoni al palato. Adesso che l’ondata spagnola sembra essersi tranquillizzata, senza nulla togliere ai Grandi, anzi Grandissimi di Spagna come Anduriz, Roca, Ruscalleda e soprattutto Adrià, che con il suo prossimo ristorante-fondazione, concentrato ora più che mai sulla ricerca e sperimentazione, resta sempre il numero uno, è il momento magico dell’Italia. Anzi si può ben dire che non c’è mai stata in un periodo come quello attuale una tale fioritura di talenti: Cuttaia, Caputo, Romito, Cannavacciuolo, Parini, Taglienti, Vinciguerra, Portinari, ma solo per citarne alcuni, rappresentano davvero l’apice di un momento irripetibile, di cui secondo me non si è ancora presa piena coscienza. E questo non solo nell’alta cucina, ma anche in quella che i francesi chiamano “bistronomie”, cioè la cultura delle trattorie e ristoranti di fascia media che da noi sono spesso di qualità invidiabile. Ciò spiega anche lo scarso stimolo in Italia alla ricerca d’avanguardia, laddove la “cucina della nonna” resta un caposaldo incrollabile.
Uno chef di cui stima particolarmente il lavoro e che magari vorrebbe documentare in uno dei suoi reportage… e un’esperienza gastronomica memorabile?
Escoffier, forse?! Dato che ho lavorato praticamente con tutti i grandi, come documentato settimanalmente dalla galleria del portale www.lomejordelagastronomia.com di Rafael Garcia Santos, con il quale collaboro da anni, non mi è possibile risponderle che con una battuta; e lo stesso vale anche per quanto riguarda la cena della vita, sono state tutte spettacolari, sarebbe per me come operare una scelta di Sophie, essere costretto a uccidere uno dei propri figli!
Dopo “aver messo a nudo” il cibo con il food porn, quale sarà secondo lei la prossima frontiera della food photography?
Auspico l’avvento di foto futuribili in Odorama, la tecnica usata da John Waters nel film Polyester… Ma staremo a vedere i progressi e mutamenti anche in campo gastronomico, al pari dell’attualissimo food porn, fenomeno oggi di moda ma in realtà sempre esistito, basta guardare i vecchi numeri de La Cucina Italiana per comprendere l’evolversi dei gusti, come allo stesso modo traluce dalle immagini erotiche degli anni ’70 e ’80…
di Federico Schiaffino
(pubblicato su Aroma di maggio/giugno 2011)