Fabio Turchetti, giornalista di enogastronomia, è titolare da alcuni anni della rubrica sul vino de Il Messaggero. Collabora inoltre con la Guida dei Ristoranti de L’Espresso ed è docente di molti corsi sul vino che si tengono nella capitale, fra tutti, quello presso l’Enoteca Costantini, che dirige da quindici anni. Insegna materie enogastronomiche nei corsi professionali per Food&Beverage Manager dell’Accademia Nazionale Comunicazione e Immagine e collabora costantemente con Athenaeum, associazione di enogastronomia che ha sede presso il St. Regis Grand Hotel di Roma. Ha scritto diversi libri sull’argomento e di recente è stato insignito presso il Campidoglio di un premio giornalistico legato al ventennale dell’Associazione Nazionale Città del Vino.
Quali le eventuali differenze fra il successo del vino e quello della cucina?
Il vino è un prodotto più alla portata di tutti, capace di generare poche complicazioni qualora si volesse conoscere meglio, grazie a corsi, eventi, riviste, e quant’altro. Oltretutto, è facile accostarsi ad una bottiglia senza aver mai fatto alcun tipo di pratica, cosa impossibile per la cucina, dove ad essere seri si dovrebbero imparare a menadito le basi, i prodotti, le tecniche di cottura, la stagionalità, prima di parlare. Ecco perché della cucina troneggiano soprattutto immagini e concetti modaioli e d’effetto, con tutte le degenerazioni del caso dovute ad un reality quale “IL RISTORANTE”. Basterebbe pensare come le puntate di “PORTA A PORTA” dedicate annualmente alle guide siano quelle che hanno costantemente lo share più basso, per capire come ancora non si vada molto oltre spadellamenti banali e commenti approssimativi. E pensare che la cucina è ormai in tv costantemente… Peccato però che a sbandierare la qualità siano veramente in pochi.
È più facile parlare e scrivere di cibo o di vino?
Tema piuttosto soggettivo. Per quel me mi riguarda, trovo che descrivere piatti e ristoranti richieda un approccio cronachistico più rigoroso, dovendo anche raccontare servizio, ambiente, igiene, gabinetti e compagnia cantante. Il vino permette, invece, oltre agli aspetti tecnici e organolettici, di affidarsi maggiormente al sentimento, al ricordo, alle sensazioni affettive, alle suggestioni. Per chi ama scrivere, secondo me, ammesso che cucina e vino siano apprezzati allo stesso modo, il nettare di Bacco permette di far scivolare la penna con maggior passione e romanticismo.
Dove va la cucina? Quale lo chef migliore? E i top restaurants?
La cucina è di certo alla sua massima espressione tecnica, nonché alla fase di sperimentazione più evoluta, di tutta la sua storia. Da qui a vendere fumo, però, il passo è più breve di quanto si pensi. Ci sono chef straordinari, che compiono prodigi nella trasformazione e nella fusione di alimenti che virano dal solido al liquido, o viceversa, con estrema disinvoltura. Per non parlare di ripieni che divengono involucri o paste che fanno l’esatto contrario, magari servite come dessert. La cucina, però non deve dimenticarsi di essere buona e riconoscibile: perché se qualcuno s’inventa la trippa inzuppata nel cioccolato e decorata con la spuma di datteri (invento, estremizzando) potrei pure rimanere basito per la sua fattura, ma se alla fine mi vedrò costretto a riconoscere che la trippa cucinata un tempo da mia madre era più buona, ciò starà a significare che il piatto non è proprio così impeccabile, visto che non è riuscito neanche ad aggiornare dettami o insegnamenti culinari. A quel punto, onore al merito a chi realizza la trippa tradizionalmente, facendoti anche leccare i baffi. Perché per fare un passo avanti non dobbiamo farne due indietro.
Fra tanti mostri della tecnica, comunque, io continuo a ritenere che il più talentuoso di tutti (per talento io intendo davvero l’improvvisazione totale, il “qui e ora” dell’accostamento, l’estro senza programmi e obiettivi, la folgorazione) rimanga quell’orso di Vissani, che in cucina (e solo lì) riesce sempre a sbalordire, se in palla. Considerando, fra l’altro, che inventa pressoché quotidianamente da trent’anni…
Fra i ristoranti intesi in senso lato, invece, potrei citare tanti salotti di livello (permettetemi almeno un omaggio ai coniugi Santini, del Pescatore di Canneto sull’Oglio). Trovo però che i due locali dove cucina, servizio, ambiente e carta dei vini godano della più alta sinergia siano La Pergola dell’Hotel Hilton, a Roma, e l’Enoteca Pinchiorri di Firenze. Sono due posti che, a certi livelli, ti permettono anche di respirare (con garbo e classe) un’atmosfera di lusso, facendoti sentire un principe: fattore, quest’ultimo, che per qualche commensale rappresenta magari l’unica occasione della vita, non dimentichiamolo.
Il vino italiano come si colloca fra i grandi del mondo?
Il vino francese, secondo me rimane il riferimento costante per quanto concerne i top, i fuoriclasse (a prezzi improponibili, lo riconosco). Noi siamo insuperabili nella fascia media e medio-alta, dove siamo bravi non solo per la qualità, ma per qualità nella varietà. Siamo l’unico paese al mondo completamente vitato, peccato che l’abbiamo capito (almeno parzialmente) dopo lo scandalo del metanolo. Tant’è che il vino italiano con un progetto articolato, che muova dal vigneto all’etichetta, ha soltanto venticinque anni, più o meno. E forse è una vergogna…
(pubblicato su Aroma di luglio/agosto 2007)